Facebook come “Stato digitale”. Abuso di posizione dominante e tutela del consumatore.

Parto subito dal punto di arrivo, mettendo le carte in tavola: Facebook è uno Stato vero e proprio e non solo simbolicamente o per espressione enfatica; e si tratta in particolare di uno Stato a) autoritario; b) totalitario; c) antidemocratico; d) centralista.

Occorre prendere le mosse da quanto vado dicendo da oltre un quindicennio a proposito della nozione di idiocrazia; l’idiocrazia (da idion, privato in greco) è un sistema istituzionale, caratterizzato dal fatto che il potere di comando e il dominio sono nelle mani di soggetti formalmente di diritto privato (si noti bene, non “soggetti privati”, dato che l’essere di diritto privato in questi casi rappresenta un carattere formale, o solo esteriore, e non necessariamente sostanziale dei soggetti stessi), i quali esercitano effettivamente la sovranità, o in unione e collusione con lo Stato, o, in prospettiva storica, facendosi direttamente Stato, dando vita alla particolare categoria dello Stato privato, ovvero, meglio, regolato dal diritto privato di ordine proprietario, tal per cui le relazioni tra il governante e i sudditi sono rette dal regime del diritto proprietario: il governante, analogamente a quanto avveniva con il sovrano assoluto dell’Ancien Régime, è il proprietario del territorio sul quale regna, e quindi i suoi sudditi sono qualcosa di simile a suoi tollerati ospiti; per quanto sul sovrano assoluto gravassero poi oneri di legittimazione di carattere sacrale e religioso, espressi ad esempio attraverso un giuramento, il che latita totalmente nel caso del moderno governante privato idiocratico, la cui formula di legittimazione, normalmente, in linea generale e meta-normativa, è rappresentata dall’”efficienza aziendale”, e quindi dal buon andamento dell’azienda e dei suoi laminati plastici e vetroresine, anzitutto, e solo in via derivativa il benessere della misera umanità, che quell’azienda suo malgrado compone.

Facebook-Stato digitale va quindi anzitutto inquadrato in tale teorica dell’idiocrazia; ebbene, oltre al superiore e sempre immanente mito dell’efficienza aziendalistica, che lo giustifica in quanto “privato”, Facebook ha poi un’altra formula di legittimazione da proporre all’attenzione, quale istituto giustificatorio della propria azione, e si tratta di quell’apparato culturale e sotto-culturale, che è rappresentato dall’odierno pensiero liberal e demo-americano, politicamente corretto, con annessi e connessi di cosiddetta cultura del piagnisteo, con anche alcune dosi di cancel culture, per quanto in termini non estremistici.

E allora veniamo a considerare perché sostengo che Facebook rappresenti poi effettivamente uno Stato, e non in senso metaforico, ma reale e sostanziale, sia pure di tipo nuovo, in quanto “Stato digitale” e, nemmeno interamente, virtuale, rifacendoci in questo alle più tradizionali dottrine del diritto costituzionale, ossia chiedendoci se Facebook disponga di un governo, di un popolo e di un territorio; posto che non vi sono dubbi sui primi due elementi, consistendo nel governo il management e il relativo apparato esecutivo, e il popolo nella grande comunità degli utenti, resta da dire dell’elemento qualificante relativo al territorio: ebbene, a mio avviso Facebook gode esattamente anche di un territorio, ed estremamente vasto, sia pure virtuale e digitale, dato che l’ambito della rete che occupa, suo spazio vitale, è tecnicamente anche il suo territorio.

Non è molto difficile motivare e argomentare tale affermazione, dato che è perfettamente concepibile, in base allo stesso diritto positivo vigente, o vivente, che un bene, nemmeno totalmente, immateriale e virtuale, possa essere considerato tecnicamente “territorio”. Viene all’attenzione, a tal fine, la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di etere, la quale ha qualificato “demanio” (più precisamente, ma meno tecnicamente, “bene comune”) siffatto bene tutto sommato astratto e immateriale, corrispondente nella buona sostanza all’aria, per il sol ma non banale fatto che tale bene immateriale è però altresì supporto “materiale” delle onde magnetiche e radio che consentono la trasmissione della rete telefonica e di Internet. Ed è evidente che Facebook si giova notevolissimamente, senza pagare peraltro alcun canone di concessione demaniale, di tale bene “immateriale”, anche se non esattamente virtuale; posta tale base “territoriale-materiale”, alla quale va comunque aggiunta quella relativa al tradizionale “territorio”, sul quale posano i cavi, fondali dell’oceano compresi, la rete pur panarchica di Facebook si alimenta poi del virtuale vero e proprio, consistente nel riflesso che vediamo al video, il quale è pur frutto di una rete, che nemmeno è virtuale, ma fisica, il cui prodotto però poi è virtuale, ed è quanto vediamo ed è ciò di cui usufruiamo, sia pure sempre attraverso la mediazione di qualcosa di fisico che è il computer (o lo smartphone), e allora lo schermo, o il display, e i pulsanti della tastiera.

Sia pure ispirato al modello panarchico, vale a dire in assenza della predeterminazione di un’area di territorio circoscritta con estrema precisione, pur in tale articolazione e costellazione, essendovi sulla propria rete-territorio un controllo monopolistico da parte del social network -il che non esclude la concorrenza su altri territori virtuali da parte di altri, ma nemmeno la presenza della Repubblica Italiana esclude la compresenza della Repubblica Francese su territorio finitimo, almeno fino a quando l’Unione Europea non riassorbirà la ogni cosa, ponendo fine alla storia delle tradizioni nazionali separate-, si tratta, si badi, di controllo monopolistico anche con riferimento alla fondamentale questione dell’esercizio della forza, che è esercizio della forza totalmente unilaterale, come ben si attaglia a una figura dalla fisionomia statuale: e infatti, gli atti con i quali Facebook “banna” ed esclude gli utenti, sono nella buona sostanza atti di imperio e di forza anche fisica, dato che impediscono materialmente l’accesso di fatto al canale social.

Ciò evidenzia il carattere autoritario dello Stato-digitale Facebook, il quale non sente ragioni, non motiva i propri atti, non accetta contradditorio e agisce in termini totalmente unilaterali, in pejus rispetto a come si comporta, almeno a rigor di legge, nei confronti dei suoi cittadini, la Repubblica Italiana sulla base dei principi del procedimento amministrativo, mentre abbiamo visto come il suo carattere totalitario, o almeno tendenzialmente tale, consiste nell’accettare, o comunque nel fortemente favorire, una determinata impostazione culturale e ideologica, fino al punto di dar vita a eclatanti, e più volte documentate, disparità di trattamento tra utente e utente, in funzione del sostegno da loro dato a una determinata impostazione politica piuttosto che a un’altra.

D’altra parte, Facebook è totalmente antidemocratico, dato che il “popolo”, vale a dire la comunità degli utenti, è del tutto priva di voce in capitolo, non partecipa in alcun modo, non solo ai provvedimenti che riguardano personalmente i singoli utenti, ma nemmeno alla determinazione dell’indirizzo generale; tant’è che poi la “normativa” che regola le attività su Facebook, le condizioni d’uso -che vengono tutt’altro che intese come un soft law-, non solo sono determinate in modo totalmente unilaterale, come normalmente avviene nei contratti standard e per adesione, ma anche, in violazione sfacciata del codice del consumo (che è diritto europeo), vengono modificate di continuo, sempre unilateralmente, sulla base delle esigenze di linea politica del social network, come abbiamo visto a proposito di cosiddetta pandemia, di vaccinazione, e ora di guerra in Ucraina: addirittura, in tal caso, la disparità di trattamento è stata esplicitamente rivendicata da Mr. Zuckerberg, il quale ha dichiarato che gli insulti a Putin saranno tollerati e, a quanto pare, persino incoraggiati; a latere v’è poi tutta la questione del fact-checking, con riferimento alla quale, constatato l’esercizio fazioso di tale attività, lo stesso social network ha dichiarato pubblicamente, in pendenza di un importante giudizio negli Stati Uniti, che attraverso di esso Facebook esercita i diritti di cui al Primo emendamento, come dire che si tratta di semplici opinioni, e non affatto di ricerca e riaffermazione di una qualche verità oggettiva.

In tal modo, Facebook pretende di esercitare una vera e propria sovranità, come un qualsiasi Stato sovrano superiorem non recognoscens, tant’è che la sua policy fondamentale aziendale è il reputarsi legibus solutus, ossia rivendicare sostanzialmente di potere ignorare il diritto vigente nei singoli Paesi; tant’è che Zuckerberg, a fronte dei vincoli derivanti dal diritto europeo, ha minacciato addirittura di abbandonare il continente, piuttosto che adeguarsi. Il tutto rivolto a miliardi e miliardi di persone nel mondo, il che impedisce di affermare che nella specie si tratti di una mera proprietà allodiale, ove pure vigerebbe lo ius utendi et abutendi, che presuppone comunque la minima o ridotta dimensione, per consentire così a noi di sostenere l’esposta tesi statualistica.

Che cosa caratterizza, davvero, uno Stato, poi alla fine? La vastità del territorio, dato che, con Hegel, quantità e qualità sono nella relazione dialettica della “misura”, quindi le dimensioni sono una categoria o una funzione della qualità (size matters); tant’è che esistono casi che alcuni hanno reputato “intermedi”; e così, ad esempio, il Principato di Monaco sarebbe proprietà privata della famiglia Grimaldi, ovvero il Vaticano sarebbe un allodio, vale a dire una proprietà privata libera (è noto che l’allodio si distingue dal feudo, in quanto questo è all’opposto un semplice beneficio dato in concessione da una qualche soggettività di rango superiore), una proprietà privata allodiale di un singolare proprietario, elettivo, ma anche sovrano teocratico assoluto a vita, ossia il Papa.

Ma, a parte tale divagazione, resta il fatto che Facebook è un chiaro usurpatore del territorio (del demanio) dello Stato, al quale quindi contende la sovranità, come sosteneva Santi Romano della Mafia siciliana, tal per cui la coesistenza Stato-Facebook va ricondotta, come quella Stato-Mafia, alla teorica della pluralità degli ordinamenti e, semmai, per certi versi, al diritto internazionale; rilevante è il fatto che, non corrispondendo Facebook alcun canone di concessione del bene demaniale, anche sotto tale profilo il social si atteggia a Stato, tanto più che non paga, ma si fa profumatamente pagare in dati personali, che in definitiva corrispondono, sì a un “corrispettivo”, ma, dato l’ambiente e il clima, anche a una tassa, anzi, a un’imposta, dato che la sua consistenza varia da utente a utente in funzione delle sue capacità di navigazione e del valore, quindi, dei dati che fornisce anche per ragioni legate ai caratteri personali (avendo parte dei dati, anzi, forse la più parte, carattere di informazione patrimoniale).

Inoltre, come si è visto, Facebook detta norme a proprio completo arbitrio come un sovrano assoluto -sempre in assenza di alcun vincolo morale legato a un qualsivoglia giuramento-, sicché la sua “libertà di impresa” somiglia di più alla libertà degli autoritari che alla libertà dei libertari, diciamo alla libertà dell’”individuo assoluto” caro a Julius Evola, che poi è il Re, che poi è il Sovrano tradizionale.

Orbene, stando così le cose, non parrà stravagante che, nel XXI secolo, qualcuno possa pretendere che Facebook da sovrano assoluto passi a dimostrarsi sovrano costituzionale, e quindi cominci a rispettare talune regole fondamentali quanto al rispetto dei diritti, sostanziali e procedurali, degli utenti: e quindi libertà di manifestazione del pensiero, diritto di essere ascoltati in caso di adozione di provvedimenti restrittivi, diritto a vedere congruamente motivati detti provvedimenti restrittivi, diritto alla parità di trattamento e alla non discriminazione, anzitutto. E poi, magari, un diritto alla partecipazione alla determinazione delle linee fondamentali, cosa che un social network democratico o libertario ammetterebbe, coinvolgendo nelle scelte principali, comprese quelle di “indirizzo politico”, i consumatori, che poi ormai sono cittadini prima ancora che consumatori: sia in quanto cittadini del proprio Stato classico, sia in quanto cittadini del nuovo Stato digitale.

Quantomeno, come lo stesso diritto del consumo suggerisce e impone, andrebbe riconosciuta l’esistenza di un principio di buona fede rinforzata, che comporta rispetto del principio del contraddittorio, onere di motivazione e obbligo di parità di trattamento, pena l’incorrenza in abuso del diritto, i quali del resto sono tutti portati del principio di interpretatio contra stipulatorem, che presiede ai contratti per adesione e massimamente ai contratti soggetti al codice del consumo, in cui la pregnanza dei valori costituzionali è più intensa che in altri rapporti, tanto più in considerazione del carattere squilibrato di molti di quei rapporti. Ma tanto più una volta che si inizi a ricostruire come sorta di nuova tipologia di Stato il soggetto, non può non operare in via rinforzata altresì il principio, elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tedesche, detto del Drittwirkung, in forza del quale i principi costituzionali valgono anche nei rapporti orizzontali, ossia paritari nel senso di “tra privati”, con particolare riferimento alla parità di trattamento e alla non discriminazione.

Nel nostro caso, privato o “Stato” che sia Facebook, di sicuro il rapporto non è per nulla “paritario” od orizzontale, dato lo squilibrio palese esistente tra le parti: il rapporto tra Facebook e utente-consumatore è certamente tra i più squilibrati che si conoscano, al punto che, in assenza di correttivi, questo tipo di rapporto deve ritenersi strutturalmente invalido per vessatorietà generalizzata: del resto, lo squilibrio è plasticamente rappresentato dal fatto che Facebook può punire a piacere con un clic l’utente, determinando una vera e propria esclusione fisica e materiale dall’accesso, ma l’utente non ha modo alcuno di punire Facebook, allorché sia il social network a rendersi per qualche ragione inadempiente: sicché lo stesso sinallagma è geneticamente alterato in un simile rapporto, il che fa dubitare davvero della natura contrattuale di una simile “adesione”, che è totalmente passiva e di autoconsegna alle determinazioni della strapotente “controparte”; salvo esercitare diritto di exit, ma per andare dove, stante il carattere assolutamente dominante e quasi-monopolistico del social in questione?

Al che deve aggiungersi che ognuno di noi costruisce e costituisce sul social un proprio capitale relazionale e reputazionale, consistente nello stock degli amici e dei followers, tal per cui, esercitando detto diritto di exit, detto capitale immateriale verrebbe gettato a mare, con chiara perdita di valore anche economico, non essendo il capitale stesso portable, vale a dire trasferibile in altro ipotetico social network; trasferendosi al quale oltretutto, avendo necessariamente questo molti meno utenti, si verrebbe a determinare una riduzione secca del capitale relazionale anche sotto questo punto di vista: quindi il “Te ne puoi anche andare” non funziona il alcun modo, dato che comporterebbe comunque un grave danno esistenziale e patrimoniale.

Quando Facebook commette atti illeciti all’atto di disporre esclusioni illegittime, certamente incorre, come si è detto, in abuso del diritto; ma siffatto abuso del diritto può farsi assurgere altresì a vero e proprio abuso di posizione dominante, alla luce del diritto della concorrenza e antitrust di derivazione eurounitaria? Viene contestato, infatti, che la figura dell’abuso di posizione dominante possa essere ravvisata direttamente nel rapporto impresa/consumatore -semmai talora in forma mediata, stante il carattere plurioffensivo dell’illecito antitrust-, e quindi nella relazione verticale, potendosi ravvisare, a quanto pare, solo nelle relazioni orizzontali tra imprese concorrenti.

Io sono dell’avviso, al contrario, che, quando un soggetto in posizione dominante, e Facebook nel suo “mercato rilevante” pacificamente lo è, approfitta di tale posizione dominante per sfruttare abusivamente il consumatore, non solo in materia di prezzi, ma anche di qualsiasi altra condizione contrattuale, o di gestione del rapporto, tale sfruttamento abusivo del consumatore deve essere configurato come vero e proprio abuso di posizione dominante, dato che concorrono i due requisiti della situazione dominante e del suo sfruttamento abusivo in danno dei consumatori, così come richiede l’art. 102 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea alle lettere a) e b).

E infatti, la lettera a) considera pratica di sfruttamento abusivo imporre “condizioni di transazione non eque”, e allora resta da verificare se quelle che ho descritto siano o no condizioni di transazione eque o inique, tanto più che il principio del giusto procedimento è stabilito, sempre a livello europeo, dal codice delle comunicazioni elettroniche; la lettera b), a sua volta considera sfruttamento abusivo della posizione dominante il fatto di “limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori”, che rappresenta quella che io da tempo chiamo “inefficienza deliberata”, che è normalmente il proprium dell’abuso di posizione dominante incarnato dallo Stato (peraltro, in tal caso, deliberata e connaturata nel fatto stesso dell’uso della forza, dato che non è certo con la minaccia dell’uso della forza che si possa soddisfare un consumatore!), e che viene esattamente inverata dal fatto che Facebook, ormai, da molto tempo, più che ricercare la soddisfazione del consumatore ricerca la sua affermazione politica, anche a corso di perdere utenza, perché questa è la realtà dei fatti guardando i dati recenti.

Lo sfruttamento abusivo della posizione dominante assume qui quindi caratteri del tutto analoghi a quelli propri dello Stato -e infatti abbiamo appena visto che Facebook ragiona da Stato, molto probabilmente addirittura è uno Stato, e comunque ragiona politicamente, ormai, più che commercialmente-, ossia si attiene al godimento parassitario e inefficiente della sua posizione dominante; sicché l’inefficienza diviene occasione o strumento del dominio, nel senso che, così come lo Stato domina unilateralmente sui cittadini, anche in virtù della propria inefficienza, Facebook domina unilateralmente sugli utenti, arrivando a nemmeno curarsi dell’utilità economica, al solo fine di affermare una propria linea politica e culturale, che diviene il reale obiettivo del management del social network, il quale agisce secondo criteri politici esattamente come fa uno Stato, anche a rischio di perdere utenti, così come uno Stato corre il rischio di perdere cittadini con l’emigrazione, come avviene in Italia; ovvero ancora accettando l’idea di perdere il consenso dei cittadini, dato che entro certi limiti la perdita di consenso non intacca il predominio dello Stato: allo stesso modo, la perdita di utenti e di rating da parte di Facebook non lo scoraggia dal perseguire suoi obiettivi politici, resi possibili esclusivamente dal conseguimento della posizione dominante, e quindi dal potersi “accontentare” da tale punto di vista, e potendo così puntare, a questo punto, più sull’elemento politico che su quello economico, o comunque affiancando i due elementi. Sicché Facebook e Twitter preferiscono perdere un “influencer” importantissimo come Donald Trump, piuttosto che deflettere dal perseguimento della loro linea politica (il che fa ipotizzare anche una fattispecie di intesa abusiva per pratiche concordate e convergenti, da questo punto di vista, tra Facebook e Twitter).

A ciò occorre aggiungere il rilievo che, nell’ambito dello sfruttamento abusivo del consumatore da parte di un soggetto dominante, viene ad assumere il carattere vessatorio delle clausole contrattuali, per non dire, addirittura, della violazione delle clausole stesse, però ovviamente in pejus, quindi in ulteriore oppressione del consumatore attraverso il comportamento, oltre che attraverso l’imposizione unilaterale di clausole; insomma, il consumatore già è vessato dalle clausole, in più è ulteriormente vessato dalla circostanza che tali clausole, già vessatorie, vengono applicate o interpretate in senso ulteriormente vessatorio; ovvero ancora apertamente violate, peggiorando la situazione del consumatore rispetto a quanto già vessatoriamente previsto dalle clausole. In ciò esercitando il social network unilateralmente un completo arbitrio, ad esempio nell’esclusione degli utenti, in via definitiva o provvisoria per lunghi periodi, che va al di là di qualsiasi disposizione normativa o contrattuale o di prassi interpretativa stessa, posto che le condizioni d’uso nulla dicono al riguardo, non essendo previsto alcun codice di pene precise e tassative nelle condizioni stesse; le quali, peraltro, come si è detto, vengono modificate unilateralmente di continuo, essendo il parlamento di Facebook, evidentemente, in seduta permanente, salvo che questo non è consentito dalla normativa sul consumo.

Concentrare l’attenzione antitrust sullo sfruttamento del consumatore, come del resto l’art. 102 citato perfettamente consente, sicché non si comprende sulla base di quali pretesti si possa negare tale possibilità, consente al danno da violazione del diritto antitrust di perdere quella artificiosità “positivista” che è propria di tale branca del diritto, per essere ricondotta alla tradizione di common law o allo stesso illecito aquiliano, nel senso che alla violazione contrattuale, in casi come questi, si accompagnano sistematici abusi del diritto, che assumono altresì valenza extracontrattuale oltre che di inadempimento contrattuale.

La lettura vetero anarco-capitalista, per la quale il privato digitale fa quello che vuole, in quanto l’ancap neghi l’antitrust, viene qui superata in due sensi: a) Se si ritiene che il danno strettamente fisico nel digitale non operi, e saremmo sempre di fronte a un danno solo virtuale, in tal modo si finisce con il fare passare in cavalleria qualsiasi illecito informatico, dal furto di dati, all’accesso indebito in sistema informatico, alla forzatura di password; diventa tutto lecito, dato che non si colpisce il corpo fisico della persona, ovvero una sua precisa proprietà fisica e materiale: e però il danno è evidente, e nel caso dell’esclusione dall’accesso al social network esso ha un’evidente fisicità; b) la contrarietà ancap all’antitrust tradizionale qui non opera, dato che non si tratta qui di antitrust nel senso della generica “concorrenza” da tutelare da interferenze del tutto non violente (per cui ci troveremmo di fronte a victimless crymes) tra imprese, ma di danno rivolto a un soggetto debole, danno tanto esistenziale quanto economico, ma, si badi, danno ingiusto in quanto in violazione di una serie di principi fondamentali di buona fede e correttezza; e il consumatore, in tal caso, non si propone come altra impresa concorrente o potenzialmente concorrente, salvo quanto si dirà sul fatto che anche l’utente Facebook in realtà è un concorrente, non solo potenziale, del social network, ma come quisque de populo danneggiato dalla condotta in abuso del diritto da parte di un soggetto ampiamente dominante e in posizione di supremazia privilegiata nei suoi confronti.

Dove ha ragione l’anarco-capitalista è quando egli afferma che la concorrenza “bene pubblico” degli ordoliberali non è un valore in sé, il valore in sé è rappresentato dalla libertà; ma, in ipotesi, la libertà potrebbe anche dare vita a situazioni, magari transeunti, di monopoli di fatto (non di diritto o quasi-diritto), senza che questi debbano essere smantellati a forza, al fine di assicurare l’ordoliberale astratto “bene pubblico concorrenza”; non è tal fine che il diritto antitrust è sorto nel 1890 negli Stati Uniti con lo Sherman Act, che infatti trovò, o almeno la trovarono i suoi principi ispiratori, la fiera opposizione di Oliver Wendell Holmes in una nota opinione dissenziente, ispirata a valori di spencerismo sociale (e si noti che Holmes fu propugnatore  del principio del “clear and present danger” come unico fondamento possibile alla limitazione del free speech, e quindi inorridirebbe di fronte all’attuale “giurisprudenza” di Facebook in materia di libertà di espressione); ma al fine di tutelare i consumatori da eventuali abusi di inefficienza deliberata nei loro confronti da parte dei grandi “trust” americani, e ciò sulla base dei tradizionali principi di common law, così come riconobbe con franchezza lo stesso senatore John Sherman; il quale subito chiarì che, date le difficoltà di fornire una definizione di “monopoly power” soddisfacente, il suo progetto affondava le radici nel common law, ossia in un modo di intendere il diritto che contempla l’obiettivo dell’efficienza nel proprio DNA: “The object of this bill, as shown by the title, is ‘to declare unlawful trusts and combination in restraint of trade and production… It does not announce a new principle of law, but applies old and well-recognized principles of the common law… only to prevent and control combinations made with a view to prevent competition, or for the restraint of trade, or to increase the profits of the producer at the cost of the consumer”.

La ratio fondativa dello Sherman Act era quindi la tutela non della “concorrenza” come astratto bene supremo, ma del consumatore dai costi sopportati in conseguenza delle inefficienze deliberate dal monopolista in suo danno e a proprio vantaggio. Ecco dunque individuata la ratio principale delle politiche antitrust, solo strumentalmente nella relazione orizzontale tra imprese concorrenti, ma in via primaria nel nesso verticale esistente tra un soggetto forte, il quale può avere da guadagnare dal fatto di essere inefficiente, o di concorrere a determinare inefficienze sul mercato restringendo la concorrenza, e un soggetto debole, il quale da tutto ciò subisce danno, perché all’incremento di profitto del soggetto grosso corrisponde un incremento di costi per il soggetto debole, che è appunto il consumatore, che ne viene sfruttato; e, nei rapporti con l’impresa/contro-impresa Stato, il cittadino, il quale, peraltro, è tale anche nei confronti del soggetto formalmente privato dominante, il quale non di rado si giova di supporti variamente configurati da parte del soggetto titolare della sovranità.

La chiave di lettura del tema è dunque questa, il soggetto forte può avere un interesse a essere inefficiente, se tale inefficienza gli consente di sfruttare meglio il soggetto debole, dato che a una minore qualità del servizio corrisponde anche un incremento dei profitti, o anche, nel caso di Facebook, un incremento di potere politico, culturale e sociale; o quantomeno si tratta di un interesse putativo, dato che potrebbe non essere affatto così, ma la limitata intelligenza imprenditoriale del soggetto forte inefficiente gli fa credere che sia così: si tratta di quel sintomo di abuso di posizione dominante, che nella ratio dello Sherman Act sembra assumere primaria rilevanza, che ho definito inefficienza deliberata, e che ho sottolineato come si riscontri in particolare nelle tipologie stataliste, alle quali Facebook, tanto per intento soggettivo, quanto per riscontri oggettivi, consente di essere accostato.

Ora, chiarito che ab antiquo l’antitrust riguarda la tutela del consumatore, oltre che la libertà d’impresa ponderata con un obiettivo di efficienza generale dei mercati (cosiddetti), che l’abuso di posizione dominante riguardi, in Europa, quantomeno anche lo sfruttamento del consumatore è già stato chiaramente enunciato dalla decisione dell’antitrust tedesca in data 6 febbraio 2019 in materia di trattamento dei dati personali da parte di Facebook, in cui lo sfruttamento abusivo dei dati, e quindi immediatamente del consumatore, in quanto titolare dei dati stessi, è stato sanzionato in quanto sfruttamento abusivo di posizione dominante in danno della concorrenza, oltre che dei consumatori.

In un caso come quello di Facebook nei termini fin qui descritti, emerge altresì che l’accumulo dei dati illecitamente appresi porta il social network anche a conoscere gli orientamenti politici degli utenti, il che consente poi una disparità di trattamento mirata, dato che gli algoritmi sono in grado di conoscere il tuo orientamento politico-culturale, e infatti all’utenza vengono suggeriti amici e gruppi, che vengono giudicati affini a quell’orientamento politico, a volte incorrendo in equivoci gustosi.

Si dirà, a questo punto, come obiettano alcuni, che tutto ciò non ha nulla a che fare con la concorrenza o con il diritto della concorrenza, salvo che tale affermazione si fonda sul pregiudizio, infondato alla luce del diritto-positivo-così-com’è-scritto, che l’abuso di posizione dominante non riguardi casi di puro e semplice sfruttamento del consumatore, quando questo avvenga appunto da un soggetto con potere di mercato dominante, che è esattamente quanto nei fatti ha invece sostenuto l’antitrust tedesco. E su questo mi pare di avere già argomentato con riferimento alla lettera dell’art. 102 TFUE, alla cui interpretazione, evidentemente, si sovrappone troppo spesso un bias cognitivo in ordine al suo non riguardare immediatamente la salvaguardia del consumo, bias che mi pare non sia dotato di adeguati appigli testuali.

Ciò doverosamente precisato, va anche detto però che non è affatto vero che nella questione come qui presentata non emergano anche importanti profili di diritto della concorrenza strictu sensu, posto che Facebook, con il suo atteggiamento, di fatto e di preteso diritto, vieta abusivamente la concorrenza sul territorio di sua pertinenza, il che non significa affatto che sia anche territorio di sua proprietà, non essendolo per nulla, trattandosi di demanio, che il social occupa nei fatti abusivamente, e se ne appropria con autentico atto di usurpazione; il che non ha niente a che fare con la questione della tax web, che graverebbe sui profitti dei giganti della rete, ma non li costringerebbe a compensare la comunità dei cittadini per l’uso del demanio, sul presupposto che, come insegna la migliore dottrina costituzionalistica dai tempi più antichi, il demanio, in quanto pertinenza che afferisce al predicato della sovranità, appartiene ai cittadini (“popolo sovrano”) e non allo Stato-persona.

Per meglio comprendere questo punto, ossia che Facebook monopolizza demanio e vieta la concorrenza, occorre fare un passo indietro, ponendoci una franca domanda: quali sono le ragioni di tipo economico, per le quali la rete di internet, che ha delle potenzialità e delle effettività sostanzialmente infinite, e che quindi dovrebbe, e in un certo senso è, la sede della più ampia concorrenza, poi finisce nei fatti con il creare colossi monopolistici o quasi-monopolistici, a un livello di scala senza precedenti, quali Google, Amazon, Facebook e poco altro? È vero che, teoricamente, trattandosi di posizioni dominanti di fatto e non di diritto, tali soggetti possono anche intendersi, in astratto, come transeunti e caduchi, e forse lo sono anche effettivamente sui tempi lunghi; nell’immediato, però, ed è agevole immaginare per non poco tempo, tali soggetti manterranno la propria dominanza e preminenza.

Dunque, allora: perché ci troviamo di fronte a pochi giganteschi colossi, sulla rete, a fronte di tanti nani poco o per nulla significativi? Il fatto è che le appropriazioni della rete funzionano alla stregua di enclosures contemporanee, enclosures (“chiudende”) solo in apparenza virtuali, dato che, una volta occupato e perimetrato, ed escluso l’accesso da parte di terzi, lo spazio virtuale cessa di essere virtuale e diviene materiale, attraverso un meccanismo, che potremmo definire come “rendere artificiosamente scarso l’abbondante”, se non addirittura, nel caso della rete, l’infinito o potenzialmente tale, virtualmente tale.

A questo punto, si renderebbe opportuna una disamina tecnico-economica precisa, che non siamo in grado di fornire, e quindi invitiamo chi ne sia competente a darle vita. Tuttavia, ciò che si può azzardare è che, una volta che l’imprenditore più abile, o che per convenzione riteniamo tale in quanto comunque baciato dalla Fortuna, o comunque il “primo arrivato” nel dare vita alla chiudenda, il quale sia riuscito ad affermarsi -per accesso privilegiato, o no, al sistema bancario-finanziario, stante la mancanza di un autentico libero conio, o per qualsivoglia altro motivo-, il fatto solo di essere stato il “primo arrivato”, o, comunque, il primo capace di consolidarsi, già solo questo apre la strada a una crescita esponenziale del soggetto, proprio a cagione della natura virtualmente infinita della rete di internet, sicché a questo punto il carattere infinito della struttura e della risorsa cessa di essere presupposto concorrenziale, per mutare in agevolatore del formarsi del grande monopolista.

Proviamo a confrontare la rete, come sede di ubicazione dell’attività di servizio dell’impresa virtuale, a un capannone industriale, quale sede di un’impresa materiale: ebbene, il fatto è che, valido tale paragone, la rete è però come un capannone grande come il mondo; senonché, il fatto che l’occupazione di una tale res sia sostanzialmente gratuita, a parte i costi di impianto, o almeno nei fatti quasi-gratuita per un soggetto, il quale sia di già riuscito a conseguire un certo livello di consolidamento e di stabilimento nell’enclosure, una volta operato tale homesteading,quell’enclosure, quella porzione di “capannone” virtuale, viene progressivamente ad ampliarsi con estrema facilità, posti come relativamente molto bassi i costi per ampliare a dismisura la propria presenza sulla rete: la crescita è quindi esponenziale, non per meriti miracolosi di Mr. Zuckerberg, se mai il merito è stato iniziare e sforzarsi di proseguire: ma, a quel punto, la crescita esponenziale è intrinseca al mezzo della rete; sarebbe come se, una volta acquisito il famoso capannone, il suo ampliamento, o anche l’acquisto di sempre nuovi capannoni, fosse a costo prossimo allo zero, tale per cui l’aspirante monopolista, naturalmente se possiede doti adeguate, sul mercato digitale lo diventa con una relativa facilità e con notevole rapidità: tutte cose che nel mondo materiale non possono accadere e non sono nemmeno immaginabili.

Anche attraverso la rapida acquisizione dei clienti attraverso lo specchietto delle allodole della presunta gratuità, che in una certa misura è gratuità effettiva in quanto gratuità percepita, e quindi con l’acquisizione dei relativi dati ai fini della pubblicità mirata, la posizione dominante si viene a formare con una certa rapidità e facilmente; laddove, al contempo, i nuovi entranti, per potere competere, dovrebbero effettuare investimenti di dimensione di scala improponibile, senza la benché minima certezza, né buona probabilità, di ritorno, in un simile contesto di dominanza, il che, quindi, finisce con l’operare da efficace barriera all’ingresso.

A questo punto, la piattaforma web diviene oggetto di homesteading, e dal prisma del mercato rilevante “social network” di questo particolare tipo, diviene in grande parte, non più “piattaforma web”, ma “piattaforma Facebook”. Ed è allora che, a questo punto, la piattaforma Facebook, in quanto monopolista o quasi-monopolista, deve aprire al proprio stesso interno la concorrenza, vale a dire all’interno della piattaforma che il social unilateralmente gestisce, esercitando lo ius excludendi alios, a mio avviso abusivamente, in quanto “enclosure su demanio” (cfr. cap. XXIV del Libro I del Capitale di Marx), dunque illegittima, anzi, giuridicamente inesistente, anzi ancora, nel nostro ordinamento, puro e semplice fatto illecito.

In tale quadro, il rifiuto a fornire un servizio per ragioni legate all’orientamento politico, un rifiuto di contrattare sulla base di una “clausola di gradimento” politica, è del tutto inaccettabile, e opera di fatto come un boicottaggio nei confronti dei potenziali concorrenti, e non solo dei potenziali utenti e consumatori. E invero, emerge a questo punto anche un ulteriore aspetto, ossia che, sulla piattaforma Facebook, l’utente stessopuò essere considerato un concorrenteo un potenziale concorrente, ad esempio visto che può costituire sulla piattaforma stessa “gruppi” e “pagine” ad orientamento autonomo, divenendo a propria volta gestore e owner di un proprio “social network” in miniatura; eppure, nemmeno in tali casi Facebook rispetta l’autonomia di pensiero e di indirizzo politico dei gruppi particolari -quindi Facebook è autoritario, totalitario, antidemocratico e centralista-, impedendo loro di dotarsi di proprie autonome linee guida all’interno della piattaforma, ma ciò già di per sé deve intendersi come anti-concorrenziale.

Secondo alcune utili prospettazioni, il web va considerato bene comune, nel senso di aperto all’uso libero dei cittadini, dato che questo è il regime giuridico proprio del bene comune; ma allora è escluso che un colosso privato possa realizzare una chiudenda di tali colossali dimensioni -nulla a che vedere con quelle dei secoli lontani di cui parla Marx-, e poi pretendere di assoggettare al suo interno tutti i cittadini a determinate regole rigide, da esso imposte unilateralmente, in forma del tutto privatistica: l’unica parziale soluzione è quindi che Facebook sia costretta ad aprirsi alla concorrenza, e che sulla sua stessa piattaforma i concorrenti trovino ospitalità, così come sulla piattaforma Sky tu puoi trovare Netflix o Amazon Prime, o sulla piattaforma TimVision altrettanto e così via.

O così come sulla rete ferroviaria di proprietà di Ferrovie dello Stato tu non trovi solo Trenitalia di proprietà di Ferrovie dello Stato, ma anche il concorrente Italo, il che è tipico dell’economia a rete e a piattaforma: quei buontemponi che dicono “Fatti un altro social network, se non ti va a genio Facebook” sono totalmente fuori dalla realtà, per le ragioni descritte, esattamente come chi dicesse: “Costruisciti dei binari paralleli alla ferrovia, se non ti piace Trenitalia”.

Riferimenti bibliografici

– Ho introdotto il polemico concetto di “idiocrazia” nel mio Il dittatore libertario – Anarchia analitica tra comunismo di mercato, rendita di esistenza e sovranity share, Torino, Giappichelli, 2011, 325 ss. (ma la stesura del libro risale al 2006);

– La contrarietà di principio degli anarco-capitalisti alle politiche antitrust viene bene illustrata da Dominick T. Armentano, Antitrust and Monopoly – anatomy of a Policy Failure, Oakland, California, The Independent Institute, 1982; cfr. anche Alberto Mingardi, a cura di, Antitrust. Mito e realtà dei monopoli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004.

– Per il concetto di “inefficienza deliberata”, cfr. il mio L’abusiva legittimità – Dallo Stato ai common trust, Genova, De Ferrari, 2017, 348-349 e passim.

– Le proposte qualificatorie relative a Principato di Monaco e Città del Vaticano mi sono state suggerite molti anni fa da Carlo Lottieri.