Ognuno ha diritto a una somma di denaro

Io penso che ognuno abbia diritto a una somma di denaro.

Più ci penso, più la cosa mi appare ovvia, trovando ormai inconsistente la tesi contraria, per la quale chi non lavora non mangia.

La somma di denaro può rappresentare una quota dell’utile o del profitto universale, può rappresentare espressione di una libera emissione monetaria, ovvero ancora entrambe le cose: io sono per entrambe le cose -pur se collegate e parenti-, perché entrambi gli istituti hanno una loro giustificazione e spiegazione autonome.

Partiamo dalla situazione monetaria attuale, e notiamo subito come essa sia moralmente illegittima: nella situazione monetaria attuale, vi sono alcuni che hanno il monopolio, o l’oligopolio -ossia intendendo il sistema delle banche autorizzate-, dell’emissione monetaria.

Ora, come si giustifica filosoficamente (in termini di filosofia del diritto, politica e morale) che solo alcuni e non tutti siano padroni della moneta?

Non si giustifica in alcun modo, si tratta solo di un frutto dell’ABITUDINE (per dirla con il compagno scettico Hume), per cui noi tendiamo a dare per scontato quello che ci circonda, almeno fino a quando acquisiamo le conoscenze necessarie a sottoporre a critica il mondo che ci circonda: è anche un fatto di sensibilità, di “inclinazione”, come la chiamai io, di tal che capita che se sei tributario di “inclinazione libertaria” sei in grado di cogliere più cose che non vanno nel mondo circostante: una di queste cose che non vanno è che non esiste alcuna ragione convincente, per la quale solo alcuni e non tutti siano titolare del potere di emissione monetaria.

Questo per quanto riguarda la legittimazione del libero conio.

Per quanto riguarda invece la legittimazione dell’utile universale, o del profitto universale, basti pensare che, come diceva Kenneth Arrow, economista premio Nobel -il che non vorrebbe dire, ma Arrow è un grande, benché tendente a sinistra-, quando tu fai danaro sul mercato, tu stai comunque fruendo di un sistema che ti consente di farlo, di modo che tu questo sistema -ossia il mercato in generale, ma diciamo “la società”- dovresti in qualche misura premiarlo, compensarlo, diciamo ringraziarlo.

Vale a dire che il padre i talenti li distribuisce a tutti i figli, non a uno solo, anche se poi i figli fanno fruttare i talenti, o non fruttare, in modo diverso.

Poi capita anche che nell’Evangelo il lavoratore che non fa un cazzo riceva la stessa paga del lavoratore che si è fatto il cueblo, il che pure meriterebbe migliori riflessioni, anche alla luce della parabola del Figliol prodigo, nella quale pure viene premiato, non già il più meritevole (qualsiasi cosa voglia dire meritevole, per me il merito non esiste, altrimenti io sarei multimilardario in dollari), ma il MENO meritevole, almeno dal punto di vista del padre.

Tolte queste banalità evangeliche, che comunque mi appaiono rilevanti ai fini de quibus, posto che l’Evangelo mi scinde il compenso dalla fatica e dal merito (dico Evangelo, perché mi piace subire in questo momento l’influenza della famiglia valdo-metodista di cui con mia mamma eravamo fraterni amici), per la banale ragione che ANCHE CHI NON FA UN CAZZO HA DIRITTO DI MANGIARE.

Veniamo quindi alla vexata quaestio dei “divanisti”.

Il divanista, si afferma, non facendo un cazzo, non ha diritto di nutrirsi e deve morire di inedia.

Invero, nessuno si esprime in questo modo, nemmeno la destra (ma si noti che Berlusconi si è detto mille volte a favore di un reddito di cittadinanza, sia pure altrimenti denominato, di 1000, dico 1000, non 700, euro al mese), ma se lo diciamo in quel modo sveliamo la crudeltà della posizione dei contrari a ogni sorta di reddito di base.

COSTORO SOSTENGONO DI FATTO IL DIRITTO DI MORIRE DI FAME, come “compenso” per chi non lavora, fosse pure che non ABBIA VOGLIA DI LAVORARE.

Allora la domanda diventa: si ha diritto all’ozio, sopravvivendo, però?

Ergo si torna a Lafargue, genero di Marx, e al suo “diritto all’ozio”, nonché a Bertrand Russell, che riprese il tema un secolo dopo.

Adesso vi dirò una cosa.

Ossia che il tema, oggi, nemmeno si propone più in questi termini, dato che, nel nostro mondo tecnologico-digitale, NESSUNO OZIA, per diana, DATO CHE ANCHE IL PIU’ ACCANITO DIVANISTA, che guarda la televisione da mane al vespro, e anche nottetempo, in realtà PRODUCE A VANTAGGIO DI TELEVISIONI E SITI INTERNET una massa di DATI PERSONALI, che sono ormai riconosciuti unanimemente da giuristi ed economisti come dotati di grande VALORE ECONOMICO.

I dati sono MONETA, con la quale paghi i servizi internet e televisivi in streaming.

I dati sono meglio della moneta, dato che la moneta la puoi spendere una volta sola, mentre i dati, essendo puramente virtuali, li puoi spendere infinite volte, non sono soggetti a rivalità nel consumo, perché lo stesso dato lo puoi utilizzare per pagare tanto Facebook quanto Netflix.

I dati sono prodotti anche e soprattutto dal divanista, dato che il divanista, non facendo un cazzo, produce più dati per Netflix di chi va a fare un lavoro di merda al grattacielo dell’Unicredit di Porta Nuova, tipico grattacielo di merda di Milano, dove vanno i ragiunatt a fare funzionare le macchinette del caffé e a mangiare il carpaccio al bar sottostante. QUINDI QUESTI SAREBBERO QUELLI CHE LAVORANO, secondo il mainstream, invece è gente che fa bullshit jobs, per usare la locuzione di David Graeber, lavori di merda che ci infestano, però magari questi portano a casa 2.000 euro al mese con la benedizione sociale e l’approvazione comunitaria.

Invece, il divanista produce per il capitalismo, da consumatore e non da “produttore”, si fa per dicere, molto di più del finto produttore, ossia quello della macchinetta del caffé dell’Unicredit, e però non è tributario di analoga o migliore approvazione sociale: al contrario, viene RIPROVATO dalla politica e dalla televisione.

Ultimo punto, quello mio consueto:

IL DEMANIO.

Il divanista, come chiunque, non è solo produttore almeno di dati, nel momento stesso in cui è consumatore (infatti si parla di PROSUMERISMO), ma è anche PROPRIETARIO in comune di immensi capitali fissi (monumenti e risorse naturali di grande dimensione, come spiagge e laghi), e anche mobili (se pensiamo ai quadri degli Uffizi e alle altre pitture di rilievo), e quindi ha diritti di rendita e di royalties su siffatti capitali fissi, mobili, e, in una logica moderna, anche immateriali come i marchi sui monumenti (faccio per l’ennesima volta l’esempio del marchio del Colosseo, attualmente ignobilmente e abusivamente detenuto da Della Valle, quello che ha rovinato la Fiorentina con la sua inettitudine).

Anche da qui, quindi, salta fuori danaro per il divanista e il non divanista, vale a dire che i proprietari comuni del demanio, in termini tecnico-giuridici civilistici, si chiamano, non per caso, COMUNISTI: tecnicamente, i cittadini sono “comunisti” del demanio.

Al demanio, andrebbe aggiunto analogo discorso per l’impresa pubblica, che dovrebbe rendere a vantaggio dei cittadini, o almeno fornire servizi al mero PREZZO DI COSTO.